Nicoletta Gatti

Artista

L’artista Nicoletta Gatti nasce nel 1959 dal pittore tortonese Umberto dal quale eredita la passione per la pittura e per l’arte in generale. Nel 1998 frequenta a Milano l’Accademia delle Arti Applicate dell’Arch. Skoff diplomandosi poi con formazione architettonica.

La necessità, da sempre latente, di sporcarsi le mani con il colore ad olio si manifesta solo nel 2008.
Frequenta quindi un corso di pittura alla scuola d’arte Ar.vi.ma di Pavia, dove accanto alla pittrice Monica Anselmi mette a punto gli insegnamenti tecnici già respirati in passato presso lo studio del padre.

Inizia a studiare attraverso i testi di Itten il comportamento del colore, ad osservarne accuratamente le sue singole modalità di espressione, a cogliere le corrispondenze tra colori primari e secondari, tra toni caldi e freddi, per poter sviluppare autonomamente un suo percorso.

Si iscrive quindi al corso di Cromatologia tenuto dall’artista Marco Casentini all’Accademia di Brera di Milano dove presenta le sue prime opere.
La ricerca dell’equilibrio cromatico diventa l’elemento fondamentale e, facendo un percorso inverso, il disegno è dettato dai colori che creano la vera struttura del dipinto.
Gli anni dal 2000 al 2015 sono anni di sperimentazione, il suo “modus operandi” è soggetto a continue trasformazioni attraverso le quali va strutturando un suo linguaggio pittorico.

Trame del silenzio interiore
Cromo-tracciati e labirinti del segno

I cromo-tracciati di Nicoletta Gatti sono flussi spaziali apparentemente lineari, in realtà complessi e variabili percorsi che si diramano sulla superficie preferibilmente monocroma, materia di luce dove sottili filamenti affiorano come una trama di pensieri sospesi sul confine dell’impercettibile.
Indecifrabili sono le microstorie del segno disseminate nelle fibre della tela, si tratta di magnetismi contrapposti che animano il labirinto avvolgente della pittura esaltandone l’identità e la differenza, il respiro progettuale e l’esito imprevedibile dove anche l’azione del caso può essere importante.
La superficie è una stratificazione di elementi indeterminati, con variazioni tonali all’interno del tessuto cromatico, d’altro lato domina una mutevolezza di linee esili e quasi indistinguibili, tracce mnemoniche insinuanti, frammenti decentrati rispetto al fulcro virtuale dell’immagine. Anche il trattamento dei macro-tracciati è instabile, in quanto legato al peso del colore, alla lunghezza della linea, alla larghezza e al suo diverso spessore, senza trascurare la fermezza dei contorni, la ricerca del nitore cromatico e la scelta dei relativi contrasti con il tono della superficie.

Si tratta sempre di calibrare il farsi della materia: aggiungere, togliere, alleggerire e sfumare, stare in bilico tra l’emanazione del colore e l’effetto plastico delle linee circondate da macchie come fossero ombre della luce. Tutto ciò che si può dire commentando questo tipo di pittura è commisurato alla possibilità di immergersi letteralmente nel perimetro della superficie oscillando dal campo totale ai suoi dettagli minuziosi e mai superflui.
La trama segnica messa in atto dall’artista è una sequenza di stati d’animo interni al desiderio di sognare lo spazio assoluto, sentendosi parte di un respiro cosmico dove segni e colori sono incarnazioni della luce interiore, e per coglierne l’essenza bisogna usare la lente dell’immaginazione.
Gatti appartiene all’ardire di quegli artisti che sperimentano le forze occulte del visibile, le zone dell’ignoto, le fonti dell’inconoscibile, partendo dalla fusione con la natura per giungere alla sua sublimazione astratta. Non è necessario, infatti, spiegare da dove provengono i legami celati nelle movenze libere del segno, il lettore deve piuttosto abbandonarsi alle pulsioni del colore, alle emozioni recondite che esprimono tensioni che vanno oltre la realtà, in sintonia con l’indicibile che l’immagine ha in sé.
La pittura è estensione della mente, risonanza di pensieri ascetici, eco prolungata del vissuto, modo di affrontare le avventure dell’animo umano esplorando i luoghi inesplorati dove germinano le forme dell’inconscio.

Nelle trame del silenzio interiore tutto è possibile perché nulla è programmabile, ogni segno è un indizio per un altro segno, è diverso da quello inciso un attimo prima, alla composizione strutturante si contrappone la dispersione e la frantumazione come destino implicito al gesto vitale.
La mano ha la sapienza del fare istintivo, agisce con minimi scatti e automatismi, scalfisce la purezza del colore che inonda la superficie colmando ogni potenziale vuoto con sfioramenti, soffi, aliti di luce.
E’ interminabile il processo esecutivo che Gatti sostiene in lunghe ore di lavoro, concentrata a mantenere alta la tensione operativa, a trattare colore e segno interrogando le loro reciproche dinamiche. L’effetto d’insieme è un continuo brulichio di segni che non indicano qualcosa da riconoscere ma l’affiorare di grovigli emotivi e turbamenti interiori che portano l’osservatore a smarrirsi nell’indistinto spazio dell’inconoscibile.
Il disvelarsi della pittura è vissuto attraverso la verità dei suoi processi elementari, senza mai staccarsi dal corpo dell’immagine, in quanto ciò che conta è assimilare i nutrimenti del colore in ogni fase del loro divenire.

Gatti sceglie di dipingere su tela ruvida come juta o lino grezzo, apprezza la consistenza fisica di queste materie, sente vicina ogni loro qualità tattile, accetta ogni anomalia anche quando incontra le irregolarità della trama, infatti le riconduce senza forzature all’interno dell’esperimento cromatico.
Nel caso in cui si serve di tele già trattate, l’artista preferisce rimuovere lo strato colloso e riportare la superficie alla nudità originaria. Ciò permette di assorbire il pigmento, di trattenerlo come fosse l’imprimitura di base su cui stendere il colore a olio, e successivamente procedere iniziando a tracciare i segni preliminari. Il processo operativo adottato è del tutto personale, forse per questo non è semplice da decifrare, in quanto le susseguenti velature cancellano quasi del tutto i segni che a mano a mano riaffiorano e riconquistano visibilità, come fossero tracce arcaiche di una dimensione remota, impronte fisiche e mentali ritrovate nel corso del tempo.
La superficie apparentemente monocroma è in realtà nutrita da varie fluenze di colore, al suo interno Gatti articola la trama segnica con pennelli dalle punte molto sottili, strumenti di definizione microscopica a cui si alternano grafie più consistenti, dotate di maggiori gradienti luminosi. Attraverso queste differenti valenze iper-grafiche l’artista scalfisce la pelle della pittura, la scrittura diventa un alfabeto inconfondibile, elaborato su quella che ama definire “lavagna emotiva”, schermo di pensieri reconditi, luogo di registrazione di tensioni umorali e inquieti stati d’animo.
Sulla tela dell’esistenza sono stratificati differenti grafemi e graffiture, molteplici declinazioni del segno, vibrazioni che spaziano in tutte le direzioni come tacita genesi di pulsioni visibili e risonanze impercettibili.

Gatti si spinge talvolta verso la bicromia per variare il peso della luce che filtra volta per volta nelle valenze espressive del viola, nell’ardore del rosso, nel bagliore del giallo, nell’estasi del verde e in ogni altra identità cromatica, mai sentita in senso naturalistico, anche quando sembra evocare la memoria del paesaggio, l’incanto legato dei luoghi dell’infanzia.
Il doppio tono dello stesso colore permette alla linea del tracciato di schiarirsi o di adombrarsi, di variare in prossimità del passaggio intermedio, modificando la percezione del percorso tra superficie e profondità.
La definizione dell’assetto strutturale è commisurata alla necessità di staccare il tracciato dalla texture sottostante, di rendere la geometria canalizzata delle linee quasi estranea alla vibrazione di graffi segnici che rendono viva e palpitante la luce monocroma. Importante è rendersi conto che questa apparente separazione non è mai data per effettiva, così che i due piani di lettura sono compresenti e il rapporto simultaneo tra linea e superficie è sempre funzionale alla sintesi delle differenti componenti che accompagnano il movimento d’insieme dell’immagine.
L’articolazione ritmica della linea si affida alla segmentazione e alle conseguenti angolazioni, ci sono direzioni maggiormente aperte, altre racchiuse in andamenti poligonali, in realtà non vi sono soluzioni codificate ma scelte intuitive che rispondono a criteri di pura sensibilità spaziale. Ogni opera risponde all’esigenza d’armonia tra staticità geometrica ed emozione segnico/gestuale, duplice tensione che tiene insieme strutture diverse, compenetrazioni lineari, slittamenti, incroci, fuoriuscite.

La visione di Gatti ama aprirsi a molteplici spostamenti, non a caso si affida a equilibri asimmetrici, congiunzioni divergenti, relazioni e misurazioni ineguali, traiettorie che uniscono fronti opposti non ripetendo mai la stessa direzione, cercando sempre di evitare la percezione statica del colore.
Il movimento elementare della linea-traccia è l’elemento di maggiore attrazione, anche per il fatto che il suo andamento trasversale allude al superamento dei margini, allo sconfinamento dal perimetro prestabilito, come se il dipinto fosse parte della totalità immaginaria, un momento provvisorio e transitorio di una tensione di più ampia durata.
Osservando le opere esposte in questa mostra si possono analizzare le varie scelte strutturali individuando alcune differenze costruttive, da un lato stanno le tracce essenziali articolate nella direzione orizzontale e verticale (Andante, Percorso, Traccia nel verde, Traccia essenziale), oppure quelle altrettanto sintetiche e dotate di calcolate angolazioni (Traccia 1, Traccia nel rosa, Cromo-tracciato n° 4 nel rosso). D’altro lato, ci sono le opere dedicate alle intersecazioni (Tracce di rotte, Tracce nel sole, Tracce arcane, Incrocio di tracce, Cromo-tracciato n°21), esempi ai quali si aggiunge un’insolita variante strutturale ben visibile nella composizione intitolata “Segmenti”.
In questo caso, la disposizione dei tratti lineari è del tutto autonoma rispetto ai consueti cromo-tracciati, si avvale infatti di un andamento ritmico a tutto campo, come una partitura pittorico/musicale dove ogni linea è una nota separata dalle altre, pur facendo parte della stessa composizione.

Al di là di queste classificazioni, la lettura può avvalersi di altre sollecitazioni dirette, dovute alla possibilità di guardare la pittura con il desiderio di entrare nel quadro, per esempio osservando da vicino un “cromo-tracciato” su fondo rosso. Una linea si insinua partendo dal lato sinistro in alto e scendendo verso il lato destro ad una distanza diametralmente opposta, e questo avviene dopo che il percorso della linea chiara ha fatto una accentuata curvatura a metà della zona alta della tela. A prima vista, la linea assottigliata e lieve potrebbe evocare il profilo di una montagna, ma forse è inutile riferirsi all’idea paesaggio, anche perché la scelta di un solo colore non sembra evocarne l’atmosfera, è preferibile semmai abbandonarsi a un’estasi cromatica che riguarda la pura astrazione.

A questo punto, il pensiero visivo e la percezione tattile hanno toccato solo un primo livello di lettura, infatti ben più complessa è – come è già stato suggerito – la decifrazione millimetrica dell’epidermide cromatica. Determinati tratti sono rafforzati, altri rimangono sospesi nelle brezze del colore, altri ancora sembrano svanire nell’indistinta luce del rosso, velato filtro di decantazione di pensieri rivolti oltre il confine di ogni limite.
Il campo percettivo si dilata gradualmente, più l’occhio intercetta i tratti meno evidenti dell’alfabeto segnico più lo spazio si amplifica accrescendo la sensazione di passare dall’infinitamente piccolo alla vastità di territori immaginari. Da questo indispensabile fantasticare affiorano misteriose apparizioni da cui Gatti è ipnotizzata nell’atto stesso di tramutarle in segni, attimi fissati di getto con naturale istinto, microrganismi senza destinazione che vagano instabili sulla “tabula picta” dell’immaginazione.
Quanto più i segni sono slegati dal piano dei significati, tanto più essi sono liberi di identificarsi nei puri valori della superficie, di essere “orchestrati solo dall’ istinto del momento – confessa l’artista- alcuni lievi, deboli, incerti, tremolanti, altri più incisivi e sicuri”. Ma anche liberi di inventare qualche trasgressione delineando, sempre sul rosso, una piccola forma ovale nel punto più alto, là dove la curvatura del tracciato giunge al culmine.
Non si possono spiegare gli accadimenti del dipingere se non ponendosi all’interno del loro percorso evolutivo, sulla scia del particolare processo di scrittura che Gatti vive in modo viscerale, anteponendo il puro sentire ad ogni ragionevole logica. Ogni opera è concepita come un territorio magico dove diverse intermittenze spazio-temporali modificano la luminosità del colore suscitando sensazioni mutevoli, da un punto all’altro della tela.

Il processo di stratificazione si identifica con il tempo interiore, non è un tempo misurabile secondo parametri convenzionali ma un processo elaborato attraverso persistenti fenomeni segnico/pittorici: reticoli filiformi, lievi scalfiture, minimi affioramenti, strani geroglifici, pulsioni irregolari, frantumazioni e permutazioni del segno nel colore e del colore nel segno.
Questa complessa dinamica richiede lunghi tempi di lettura, in quanto la decifrazione dell’immagine non ha fasi stabilite, si esplicita seguendo le tracce che la pittura lascia in superficie e che il lettore deve cogliere in profondità, intuendo lontananze, spazi smisurati, aperture senza restrizioni.
In questo modo, la vita delle forme vola oltre il visibile, in attesa che altre dimensioni possano affiorare dal labirinto dei segni che Gatti elabora in un volontario isolamento creativo, indispensabile per essere totalmente nella pittura. Nell’attuale fase di verifica del suo percorso creativo, per quanto aperto alla sperimentazione di altri materiali e di altre modalità operative, il ciclo dei “cromo-tracciati” recita un ruolo di indubbia compiutezza espressiva. Del resto, la qualità di queste “trame del silenzio interiore” è visibile nella luminosa purezza dei sensi che Nicoletta ha saputo trasmettere attraverso l’afflato poetico del colore, riconoscendosi pienamente nei momenti di quotidiana felicità che la pittura sa dare, sopra ogni altra cosa.

Claudio Cerritelli

 

Particolare

Siate indulgenti quando ci confrontate
con quanti furono la perfezione e l’ordine,
noi, che cerchiamo ovunque l’avventura.
Guillaume Apollinaire

Nell’elenco delle varie avventure succedutesi nella cronaca dell’arte moderna mancano gli appunti, e la storia, riguardanti la pittura monocroma. Prima che gli specialisti affrontino tale tema, un panorama variegato ( apparentemente in contrasto con la definizione ) si offre da lungo tempo agli amatori di un genere tanto più presente dei deboli tentativi Dada “Eau De Rose“ e della falsa eloquenza dei soloni dediti alla ricostruzione del figurativo oleografico. Per gli artisti “monocromi“ non sono possibili rivendi -cazioni di priorità. Dei tre fondamentali Primario, Chang, Magenta , fino alle gamme fragili o intense dell’arcobaleno, gli artigiani della “stesura unica” rivaleggiano, incruenti, per provocare emozioni in fuga dalla cronaca.

Guardando le superfici di Nicoletta Gatti ho detectato:

1) Un fondo “anche“ monocromo.
2) Linee tracciate oltre il segno di OUROBOURO, in fuga dalla parete o invadenti in modo opportuno, tracce di un destriere che interrompono la monocromia e descriventi un percorso della memoria già caro a Mondrian nel suo periodo newyorchese. Per Nicoletta però non si tratta di un boogie- woogie ma di un andante moderato ( il Ravel di “L’Enigme éternelle”? ). Andante rotto da balzi e , a volte, in fuga dal fondo calato in ombre.
3) Le linee antigeometriche dell’artista si muovono e posano in una partitura minimale.

Roberto Borghi, osservatore attento, la definisce “poetessa inconsapevole che decanta lo sguardo”. Nicoletta, felice protagonista nell’arte totale di oggi, offre colori e segni che possono essere letti similmente al suono di un organistro. Ma il liuto medievale non ha parvenza simile in pittura.

Nel regno di “Kromo“ e dintorni si entra soltanto con forza sinestesica. Tornando al punto 3 della mia cerca evidenzio l’aspetto sonoro del quadro “Traccia numero 1“ (con slancio verticale) e anche nel “Bicromo con qudrilatero. In “Bicromo blu” l’artista indaga, con distaccata serenità, un suono marino, cupo nella ridda dei segni alla sinistra, eco al più ampio spazio e doppio per misura. In questo canto ( eccezionalmente? ) si evidenzia una bicromia, un particolare comportamento del colore sorta di “Yin e Yang” di remota lingua.
Nella struttura dei suoi dipinti sono i colori a dettare il segno, primari, secondari, complementari sapientemente e automaticamente orchestrati ci testimoniano i propositi per un’altra vera BELLEZZA. Nicoletta ci offre, bando alle scuole, una rara e qualitativamente meditativa traccia non su un territorio consueto, ma in chiave di Ottava Nota, nei cieli di più alta poesia.

Testo critico di Sergio Dangelo, artista fondatore del Movimento Nucleare ed esponente del Gruppo Co.Br.A.

Percorsi Necessari

Nell’arte tutto è riconducibile, in una sintesi estrema, a una questione di percorsi. Come nella vita.

L’arte non è “altro” dalla vita; tuttavia, ne costituisce un’espressione particolare, un aspetto speciale, una sorta di concentrato in cui convergono ingredienti molto differenti fra loro, mischiati in varie dosi: conscio, inconscio, ricerca di bellezza, echi dell’infanzia, erotismo, talenti naturali, attesa, esaltazione, predestinazione…
Qualcuno disse che un oggetto diventa opera d’arte a una condizione, che differisce da ciò che definiamo bellezza; superato Winckelmann, l’opera d’arte può contenere bellezza, spesso è così, ma non necessariamente; l’oggetto materiale, o persino immateriale, diventa opera d’arte, destinata a percorrere il tempo, quando nasce da un’urgenza, e l’urgenza nasce da una necessità, e questa necessità, potente pulsione all’azione creativa dell’artista, trova il suo corrispondente in ciò che l’inconscio collettivo attendeva, e attendeva proprio in quel momento.
L’arte, così, a seconda delle diverse proporzioni in cui sono presenti gli ingredienti di cui sopra, può essere comunicazione, oppure linguaggio, oppure entrambe le cose, di tempo in tempo, di artista in artista, nello stesso artista in fasi differenti.

Nicoletta Gatti inizia a percorrere il territorio dell’arte fin da subito, all’interno di una casa, la sua, in cui il padre semina suggestioni fatte di cavalletti, colori ad olio, odore di trementina, quadri appesi alle pareti; tutto ciò entra dentro di lei, trova il terreno fertile, ma non esplode subito. Se ne sta tranquillo, acquattato, silenzioso, come un meccanismo ad orologeria, in attesa del momento giusto, dell’istante decisivo. Che, invariabilmente, arriva, determinando la necessità, l’urgenza. Travolgendola.

La pittura da quel momento diviene per lei una passione bruciante, alla quale non può sottrarsi, vi si abbandona, perdutamente, in un flusso impetuoso di energia circolare, che esce da lei per andare alla pittura e farvi ritorno.

Pittura. Si, è la pittura lo strumento che ha scelto. La cosa non è affatto scontata: in questo XXI secolo in cui i media artistici sono molti numerosi ed eterogenei, la scelta della pittura è coraggiosa: giocando su quel terreno, ci si apre al confronto con una storia dell’arte che affonda le radici nel tempo, un tempo popolato di Grandi Maestri.
E’ la sua scelta. Dopo una fase dedicata al rigoroso studio dei volumi e del rapporto fra colore e forma, approda presto a una dimensione in cui significante e significato tendono a coincidere. Il punto di fusione sta nella convergenza tra forma/pittura e aspetti simbolici. Nelle opere appartenenti alla fase più recente, infatti, la superficie pittorica è attraversata da linee; queste linee non sembrano tuttavia stabilire confini o separare volumi, semmai tracciano Invito , vie; percorsi, appunto, niente affatto racchiusi e conchiusi nella stessa tela, bensì appartenenti a un viaggio che avviene all’interno della rappresentazione pittorica, come in un racconto che procede di quadro in quadro, formando un’ immaginaria mappa di cui ogni opera costituisce un singolo frammento, un segmento, una tappa dell’itinerario.
Questo viaggio pittorico coincide nella sua essenza con il viaggio esistenziale di Nicoletta Gatti, ma anche con il viaggio di ognuno di noi, grazie a una magia dell’arte, che rende esprimibile l’inesprimibile, facendo sì che l’esperienza individuale dell’artista divenga un’esperienza dell’osservatore, nella misura delle sue possibilità percettive.

Così, osservando i suoi lavori, essi ci appaiono come paesaggi familiari, i sentieri/percorsi, divenuti ormai anche nostri, si dipanano su superfici cromaticamente complesse, di volta in volta rigogliose o aride, a tratti popolate da presenze arcaiche e da segnali misteriosi.

Non si tratta di una complessità solo cromatica, ma anche, e forse soprattutto, segnica: ne deriva l’apparente trasparenza delle superfici, che consente di avvertire una profondità, visivamente lieve, ma fatta, si direbbe, di terra e sassi ed erba e foglie, dal sapore quasi geologico, che ha a che fare con il tempo e il suo trascorrere. Lì si dipanano i suoi e i nostri percorsi.

Percorsi che ci siamo lasciati alle spalle, o che ancora ci attendono, e che intravediamo là, nelle opere della Gatti, da dove, attraverso un ponte invisibile, transitano nelle nostre circonvoluzioni mentali, e assumono magari il significato di una strada alberata che si schiude in lontananza, tra valli e colline, oltre una curva, che porta profumi di terra e di mare, e albe e tramonti che contengono tutte le sfumature di colori, procedendo all’infinito, in direzione di lontane, segrete destinazioni: percorsi necessari.

Testo critico di Giovanni Cuzzoni, medico appassionato d’arte.

Rami fioriti

In quella che è forse la lettera più famosa del suo epistolario, Paul Gauguin dà a Émile Schuffenecker «un consiglio» che è stato poi accolto da molte generazioni di pittori: «meglio non dipingere dal vero. L’arte è un’astrazione che bisogna trarre dalla natura sognandovi davanti e pensando alla creazione che ne verrà». Anche Nicoletta Gatti, per quanto inconsapevolmente, sembra aver seguito questa indicazione, come si può intuire osservando la prima opera che l’artista stessa pone a inizio del suo percorso creativo. In quell’albero spoglio che domina un territorio stilizzato però sembra essere presente un’idea di natura molto diversa da quella incontaminata, esotica e tutto sommato “esteriore”, cioè pur sempre ancorata alla realtà oggettiva, di cui parla Gauguin. Quella da cui Nicoletta trae la sua pittura pare invece una natura già interiorizzata, cioè una dimensione scaturita da un processo di decantazione dello sguardo sul paesaggio e sulla vegetazione: una natura indiretta, quindi, filtrata e ridefinita secondo parametri psicologici. Di fronte a quest’opera insomma si ha quasi la medesima sensazione che si prova di fronte a un autoritratto, o comunque a un’immagine che descrive nel profondo l’interiorità di chi l’ha raffigurata, e nella quale la ramificazione folta e compatta che si staglia su di un cielo sgombro sembra esprimere una vitalità capace di resistere al vuoto, e di imporsi persino attraverso la sua ombra su di un terreno anonimo.

Da questo dipinto in poi l’itinerario di Nicoletta si snoda con una coerenza tanto sorprendente quanto non intenzionale. Ecco infatti succedersi una composizione geometrica già completamente astratta, ma dai colori all’incirca identici a quelli del precedente paesaggio, nella quale si incuneano, come intrusi del tutto a loro agio, dei frammenti di rami. Quindi un più complesso reticolo di forme in cui il “fattore natura” è rappresentato forse da un verde freddo, univoco, ma pur sempre allusivo di una condizione organica. Poi, nel dipinto seguente, il verde sembra scaldarsi addossandosi al marrone, la materia pittorica farsi meno netta, più sfumata e allo stesso tempo più frantumata, solcata da linee oblique, da piani inclinati che si palesano ulteriormente nell’opera dipinta successivamente a questa. Ed ecco infine profilarsi un’astrazione meno tortuosa, più capace di governare la scena pittorica ripartendola in due campi cromatici irregolari, asimmetrici ma nitidamente definiti.

All’interno di questi campi però qualcosa comincia ad affiorare, anche se non si comprende esattamente cosa. All’inizio sembrano graffi, impronte generiche, a volte somiglianti a incisioni rupestri. Poi si fa strada l’ipotesi che si tratti di segni allusivamente organici, come quelli presenti in filigrana in certe opere di Klee, o di lettere di un alfabeto primordiale, oppure di brandelli di mappe celesti. Gli indizi sembrano diventare più chiari non appena la pittura si fa monocroma, tendenzialmente neutra, talvolta contrassegnata da tinte sabbiose, e l’immagine risulta percorsa da una linea spezzettata di un colore a contrasto, o di una tonalità più tenue di quella del fondo. A questo punto lo sguardo sembra riconoscere, probabilmente per mera suggestione, un deserto cosparso di orme e solcato da una pista, da una via di transito.

Non di rado le opere astratte appaiono tanto più riuscite quanto più, paradossalmente, suggeriscono atmosfere irrisolte, visioni sospese, situazioni refrattarie a ipotesi di lettura esaustive. Anche nei dipinti di Nicoletta non è possibile scorgere chiavi interpretative che ne dischiudano in modo inequivocabile il senso. I lavori più recenti però sembrano mettere decisamente a fuoco una questione formale che può anche avere qualche risvolto esistenziale, e che ha che fare con i tracciati e le tracce. I primi in fondo non sono che dei consolidamenti, delle stabilizzazioni, delle seconde: le linee compatte e determinate che fendono le campiture si percepiscono come aggregati dei segni esili e labili che affiorano un po’ dappertutto attorno a loro. L’efficacia estetica di questi tracciati è affidata al bilanciamento che riescono a instaurare con le tracce: anzi alla loro capacità di valorizzare e far risaltare la fragilità e la precarietà delle miriadi di impronte che li circondano. Analogamente, nel primo e fondamentale dipinto di Nicoletta, la scansione geometrica del paesaggio sullo sfondo, la sua nettezza assertiva, si giustifica in relazione alla sinuosa vitalità dei rami dell’albero, e all’enigmaticità dell’ombra del suo fusto. Anche in queste ultime opere la geometria è come vivificata da dei tratteggi misteriosi, irregolari e vitali, che non sarebbe poi così arbitrario riconoscere come fioriture di quei rami.

Testo critico di Roberto Borghi, critico d’arte, curatore di mostre d’arte contemporanea e firma delle pagine culturali del Giornale.

 

Nota critica

Se si vuole rintracciare un filo conduttore nella pittura di Nicoletta Gatti, lo si deve cercare nel percorso progressivo di crescita e cambiamento della sua personalità, della sua sensibilità e del suo mondo interiore.

Un percorso che genera nuove curiosità che diventano motivo di ricerca e aprono a nuove esperienze senza spostare l’osservatorio tematico, che mette a fuoco richiami a luoghi ed emblemi affettivamente legati alle proprie radici, ma spostano invece il punto di vista, l’approccio al tema, il rapporto con la stessa realtà che viene sottoposta ad una ricerca costante di soluzioni dettata dalla maturazione di sempre nuove prospettive interiori personali e di conseguenza anche tecniche.

Le immagini, nette e pulite, apparentemente adagiate su campagne e paesaggi semplificati geometricamente, sono permeate da una tensione cromatica che le anima e trasfigura sollecitando lo sguardo a scrutare oltre le forme che prendono spunto dal vero per trasbordare arditamente nella ricerca creativa di un ponte comunicativo con lo spettatore. Le sensazioni rafforzano le emozioni, il punto di vista perde ogni superiore oggettività per diventare proposta, stimolo, occasione di condivisione di un sentimento o movente di un viaggio evocativo nella propria anima o nel proprio passato.

E così i soggetti rappresentati sfumano perdendo i contatti sia con la loro realtà materiale sia con la simbologia e con i retaggi di cui sono carichi e che potrebbero rimandare ad un mondo idillico dominato dalla semplicità rasserenante e rassicurante delle piccole cose per diventare uno spazio neutro in cui artista e spettatori mettono a confronto tratti della loro intimità e della loro interiorità e scoprono una percezione empatia trasversale che rivela motivi di comunione e condivisione insospettati. Espressione di un sentire comune, patrimonio universale degli uomini.

Un risultato che ora l’artista e avvalora la specificità dell’arte come strumento di indagine e di conoscenza di quella parte nascosta di noi stessi apparentemente insondabile quanto ricca di valori.

George Bernard Shaw a questo proposito sosteneva che “per guardarsi il viso si usano gli specchi e per guardarsi l’anima si usa l’arte”.

Un risultato che rappresenta una conquista caparbia, ancora più apprezzabile se si considera che è esplosa negli anni della maturità della pittrice, guidata da una sensibilità e da un gusto che sono cambiati nel tempo e certamente agevolata dalla conoscenza e dallo studio dei maestri della ricerca, di quei pittori che hanno sperimentato moduli che si avvicinano alle sue necessità artistiche: si pensi alla vicinanza interpretativa tra le case e i paesaggi della sua prima produzione con la loro drammatica staticità quasi fossero morti e alcune “bottiglie” di Giorgio Morandi disposte su un piano come modelli confezionati, si pensi ai riferimenti all’astrattismo geometrico di Poliakoff che sembra influire sulla seconda produzione di Nicoletta, marchiata dal passaggio dalla purezza della forma geometrica all’astrattismo geometrico e all’uso di colori forti e contrastanti negli ultimi paesaggi in cui, inoltre, si intravedono anche interessanti richiami ad un pittore quale Egon Schile i cui alberi nel dipinto “Autunno domenica e alberi” sembrano esserne l’anticipazione.

In questa progressione l’artista percorre una strada verso un traguardo consapevolmente dichiarato: “La mia pittura non è mai astratta – afferma Nicoletta Gatti – ciò nonostante amo la pittura astratta anzi l’astrattismo rappresenta per me un progetto ambizioso”.

Un progetto che in questa esposizione è possibile seguire nella sua appassionata configurazione e apprezzare per le sue specificità come i colori associati, spesso integrati dolcemente o contrapposti aspramente, sfumati ma decisi che riducono il disegno e le linee ad una insistente ricerca dell’armonia e dell’equilibrio tra pessimismo ed ottimismo quale punto di arrivo da individuare oltre la realtà o almeno in una realtà trasfigurata dove materia e sentimenti, contorni e sfumature, corpo e anima, conscio e inconscio hanno la stessa dignità e ci aiutano a ritrovare la nostra identità autentica.

Il disegno preciso nei tratti e geometricamente rigoroso pulisce le immagini lasciando che i colori calibrai sui toni vivi del verde e del blu insieme alle forme dai contorni sicuri invitino a scrutare oltre la tela.

In questo processo si salda la comunicazione tra autrice e osservatori sull’onda di un dialogo condotto dai segni e dai colori della pittura che contornano un patrimonio di ricordi, sensazioni ed emozioni comuni rintracciabili nel vissuto di tutti.

Del resto l’arte ha – tra le altre – anche la sublime funzione terapeutica e rasserenatrice di dare un senso all’esistenza e di fornire le indicazioni su come viverla: “senza l’arte – considera Hélène Grimaud – siamo errabondi, orfani, infelici per la vita, separati dalla natura e dal cosmo perché sordi, ciechi, indifferenti, insensibili”.

Testo critico di Pier Luigi Megassini, direttore Accademia Belle Arti di Sanremo, tratto dal catalogo prodotto per la Mostra di Arte Contemporanea presso Società Umanitaria, 2016.